Il Don Giovanni - di Filippo Timi

«Bisogna tradire un testo per renderlo vero», aveva affermato Timi in occasione del precedente lavoro, Amleto 2 - il popolo non ha il pane? Diamogli le brioches, e l’operazione si ripete anche in questa rilettura del mito barocco che trasforma il tombeur de femmes in Male Supremo.

Sono gli altri i veri protagonisti della pièce, a cui Timi regala ampio spazio (e che il cast, seppur giovanissimo, dimostra di saper gestire egregiamente) relegando al Don Giovanni un ruolo non proprio secondario ma certamente di collante, di deus ex machina che dall’alto un po’ manovra e po’ osserva questa umanità alla deriva.
Un’umanità fatta di figure nevrotiche e strabordanti come i vestiti che indossano - vere e proprie meraviglie kitsch realizzate dallo stilista di Prada Fabio Zambernandi - che si lasciano andare ad un linguaggio caricaturizzato ed esagerato, come quello rottermeiresco di Donna Anna, che da bambina indifesa si trasforma - letteralmente - in una macchina da guerra desiderosa di vendetta nei confronti di chi ha ucciso suo padre, perché ha tolto a lei la possibilità di farlo.



Un concentrato di cinismo e brutalità che ha contagiato anche l’universo creaturale che lo circonda, come anticipato dal sottotitolo vivere è un abuso mai un diritto. È proprio questa la forza e l’originalità del lavoro di Timi, aldilà degli eccessi provocatori a cui negli anni ci ha abituato (e che ci aspettiamo): l’aver capovolto la centralità dell’impianto scenico-narrativo. Don Giovanni non è più il motore eliocentrico da cui dipendono tutti i guai, ma è un virus che ha contaminato il pianeta e di cui ogni personaggio porta il seme propulsivo.

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